Autore:
Tiziano Rossi
Titolo: Il brusìo
Editore: Einaudi
Questa raccolta di uno tra i più raffinati e originali poeti della cosiddetta «scuola lombarda» è caratterizzata da un’acuta e penetrante osservazione della varia realtà degli umani, con personaggi e ricordi che si mescolano per raccontare il brusío della vita, per riflettere a partire dal suo essenziale rumore di fondo. In questi versi il lettore troverà la consueta passione di Tiziano Rossi per la varietà del mondo e molti dei motivi presenti nelle raccolte precedenti: ricordi familiari «emersi dall’oceano dei possibili», la «porcheria mondiale» della guerra, frammenti di vita condominiale e istantanee di città, i giochi e le fantasie dei bambini, immersi in un tempo senza misura ma pieno di futuro. Il dialogo, seppure persistente e commosso, con «le amate persone sparite» fluisce nelle vite parallele di tutti: «mica sei il centro, nessuno lo è»; ed ecco allora entrare in scena, accanto alle evanescenti figure del passato, la frenesia della gente nel supermercato o nella metro, il sentenzioso signor Tupi e il fu signor Terbi, il geometrico dottor Pòntoli e il buon cane Pim… L’umano esistere è sempre osservato con delicata sensibilità ma anche ragionato disincanto, con chiuse ironiche, a volte stranianti. Lo sguardo sul reale, da comprensivo e affettuoso, può diventare oggettivo, disilluso, e poi «andremo altrove nell’aria: | un nuovo trasloco, come tanti».
Nell’ultimo quarto di secolo la scrittura di Tiziano Rossi ha alternato nuove scosse a lunghi assestamenti. All’onorevole carriera poetica riassunta da un collected del 2003 ha fatto seguito una sorprendente “svolta” in prosa, con cinque piccoli libri da ascrivere tra i più fragranti nell’écriture senza partizioni del nuovo secolo. Raccolta anche quell’esperienza nell’antologia Gli sfaccendati, è di nuovo tempo di versi. Nel frattempo, però, il decano della nostra poesia ha doppiato il capo dei Novanta, e così il nuovo capitolo si dice «atto penultimo», non ignaro dell’esperienza residuale dell’«io minimo» sperimentato in prosa. Negli anni Ottanta diceva un suo quasi coetaneo, Christopher Lasch, che in «epoca di turbamenti la vita quotidiana diventa un esercizio di sopravvivenza», e «l’io si contrae». Quello del lungodegente autoritratto in una «corsia» beckettiana è ridotto a un «perpetuarsi» da «insetti», o altre vite infinitesime capaci solo d’un «parlottìo» o d’un «ronzìo», quale è questa sua terminale «pioggerellina» poetica. Nell’approntarsi sgocciolanti al «nuovo trasloco», si comprende infine la natura di quanto interminabilmente lo ha preceduto: «Ora il finto spettacolo è finito / la digressione».
(Il Comitato Scientifico)









