Non esiste tanto la poesia, quanto le poesie, diverse esperienze che meritano tutte ascolto e rappresentazione. Il Premio nasce per dare loro visibilità, segnalando la produzione di più alta qualità letteraria.

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Patrizia Renzi Comunicazione
patrizia@renzipatrizia.com

Non esiste tanto la poesia, quanto le poesie, diverse esperienze che meritano tutte ascolto e rappresentazione. Il Premio nasce per dare loro visibilità, segnalando la produzione di più alta qualità letteraria.

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La cinquina della Prima Edizione

Le motivazioni del Comitato scientifico
Nella vita – dice una poesia di questa raccolta – siamo attirati da distanze che ci chiamano, che non vediamo e non conosciamo, come da un suono di campane lontane. È un suono remoto, misterioso, un battito originario, nei cui rintocchi la parola poetica nasce e ritorna, ogni volta, per dissolversi. Nelle campane – nella poesia – Silvia Bre cerca di cogliere ritmi che scorrono sotterranei alla vita ma che della vita, non solo individuale, sono la linfa nascosta. A volte è necessario un salto mortale, della percezione e della grammatica. Ma più spesso questa lingua poetica si affina per concentrazione, per elisione, per cancellazione di tutto ciò che è superfluo, nella tensione verso l’origine delle cose, nell’attenzione per i nessi che le legano, per l’attimo di senso quando si dilata e sembra eterno. Le campane non possono non avere anche un aspetto mortuario, commemorativo. E infatti, verso la fine della raccolta, le note assumono un tono quasi cimiteriale e il lessico si infoltisce di «polvere», di «scheletri», di «tenebre». Come se la vibrazione delle campane precedesse e oltrepassasse il rintocco della vita, e rivelasse infine un mistero siderale, l’annuncio di una «lingua celeste dello sparire». Motivazione del Comitato scientifico Almeno sin da Marmo (libro di svolta davvero maiuscolo, edito da Einaudi nel 2007), correlativo dell’ispirazione di Silvia Bre è un’impersonalità minerale («dove io sono io non sono / che la pace profonda di me stessa // e non so più chi sono»), da frammento primigenio o degnità presocratica, che rinvia a un’esistenza non transeunte: «Non c’è cosa ch’io dico che non dica / ch’io vivo un’altra vita che è più viva / di questa stessa mia che vivo e dico». Nella sua opera sono appunto i simulacri dell’arte a rinviarci questo sguardo fisso e severo, al contempo meno e più che umano. Nelle Campane (come già nelle Barricate misteriose, dove echeggiava l’omonimo brano clavicembalistico di François Couperin) il riferimento è piuttosto al mondo acustico, al risuonare di chi ascolta. Ma anche stavolta questo suono enigmatico proviene «dalla cima che dondola al nulla scudo, / campane»; e alla parola ha accesso, dell’umano, solo «la parte altissima, antigravitazionale»: che «inneggia / a quello che non è». Ci si ricorda della prospettiva impossibile dell’ultima inquadratura delle Onde del destino di Lars Von Trier, dell’ironia metafisica di quell’«epilogo in cielo»: forse è solo da lì che si può gettare uno sguardo davvero comprensivo sulla vicenda così fragile, di contro, di noi terrestri.

Andrea Cortellessa

Le motivazioni del Comitato scientifico
Camminando per la città ci si può ancora imbattere nelle cabine per fototessera. Sono ormai oggetti desueti, relegati in qualche angolo di stazione ferroviaria, o poco più. Si tratta però, a ben vedere, di oggetti peculiari di grande suggestione, fuori dal tempo, quasi «magici», dove si può entrare e isolarsi per un attimo chiudendo la tendina. E lì fotografarsi, avere un’immagine puntuale di sé stessi in un preciso istante. Affascinato dall’intreccio fra elemento soggettivo e dimensione impersonale dell’autoscatto automatico, Umberto Fiori, poeta tra i più riconoscibili e autorevoli della nostra letteratura, ne ha subito intuito il potenziale artistico e a partire dal 1968, per oltre cinquant’anni, ha scattato e raccolto i propri autoritratti in quella che oggi è una vera e propria collezione, stravagante quanto densa di implicazioni per una riflessione anche filosofica sui temi della conoscenza individuale. Le poesie raccolte in questo volume, tutte inedite, sono dedicate a quella che l’autore definisce una «curiosità privata», un «esercizio narcisistico» che tuttavia si configura prima di tutto e con originalissima energia espressiva come ricerca del proprio volto più autentico e come esplorazione abrasiva del sé che dice e racconta, senza concessioni e senza indulgenze. Autoritratto automatico, libro ricco quanto imprevedibile, acceso da innumerevoli elementi magnetici per il lettore, allestisce una sorta di autobiografia poetica che è al contempo una riflessione sull’identità e sul carattere mutevole ed effimero dell’essere umano. Motivazione del Comitato scientifico Un giovane, poco più che un ragazzo, inizia una collezione che arriva a oggi e che con il tempo diventerà un archivio: entra in una cabina di quelle dove si scattano le foto-tessera, da solo o con qualcuno, vestito secondo la stagione, l’occasione, il tempo, con un libro in mano o uno strumento oppure un gioco. Molti decenni dopo, l’uomo che nel frattempo è diventato un poeta, ripensa a tutte quelle foto che ora sono un cospicuo registro, un raccolto del tempo e della vita. Umberto Fiori, allora, si chiede se riuscirà a conoscere, con la poesia, che cosa è stata questa sua fissazione, questo rito. Autoritratto automatico è un libro di poesie che indagano e scoprono l’invisibile vero di ognuno di noi, non il viso, non il volto, ma la faccia, quella dell’espressione “fare una faccia” o “metterci la faccia” oppure “perdere la faccia”. Se ci pensiamo, quella faccia non la vediamo mai: allo specchio assumiamo una posa (sappiamo che ci guardiamo), le fotografie, ruffiane o impietose, ci mostrano qualcuno che ha i lineamenti del volto congelati in un atteggiamento, uno sberleffo, uno smarrimento. E allora, Umberto Fiori ingaggia un corpo a corpo con quelle foto così seriali e indisponenti, ne fruga i segni, cerca il rovescio dell’immagine, il margine dei pensieri. Perché la faccia, la nostra faccia, la sua, è la luce che attraversa l’istante e il tempo incalcolabile della memoria profonda, sulla quale scivolano i ricordi. La faccia, la sua, la nostra, è negli occhi degli altri, quello che gli altri portano nella loro vita, che è la nostra.

Gian Mario Villalta

Le motivazioni del Comitato scientifico
In questi nuovi versi, vivaci e freschissimi, quasi con ironia a dispetto del titolo che li presenta, Vivian Lamarque torna ai lettori con un’opera ricca di impressioni e memoria, di vicende e presagi, che si susseguono come nelle scene di un ampio, libero film. Sono poesie in cui l’autrice si affaccia alle immagini del sempre più frequente insorgere del ricordo e all’apparire anche di volti familiari, riuscendo comunque a conservare intatta la propria vitale attitudine ad aprirsi all’incanto e agli spunti più vari dell’immaginazione. Lamarque ragiona poeticamente sul «fascino discreto degli amori non corrisposti», sull’idea dell’amore «inventato», propone narrazioni, in un’ampia, sorprendente mitologia personale che chiama a raccolta il grande cinema e grandi poeti (da Orazio e Virgilio, con riferimenti a Pascoli e Saba, Penna e Caproni). Si esprime coinvolgendo una realtà animale e vegetale, o la città con i suoi riti anche quotidiani, e poi luoghi di mare, viaggi, ricognizioni sensibilissime in uno spazio/tempo autobiografico. Introduce, con il garbo che le è consueto, pensieri sul senso stesso e sulla natura della poesia in un percorso di consapevolezza nel cuore dell’esperienza. Ma è ben presente, in L’amore da vecchia, un generale senso di provvisorietà del vivere, che porta in sé la coscienza pervasiva del futuro, inevitabile nulla, del non esserci più, fino al momento del nostro «ultimo pensiero». E a tutto questo si aggiunge, nell’età dell’inverno, di cui l’autrice sente il progredire, l’attenzione al presente, con le sue nuove, impreviste minacce. Lamarque muove i suoi passi con una felice varietà di soluzioni espressive, passando da componimenti fittamente prosastici ad altri più sottilmente e sempre incisivamente scanditi, conservando gli accenti di raffinato tono colloquiale in cui si manifesta un lirico senso di pacata e umanissima saggezza. Motivazione del Comitato scientifico Se è vero che la poesia è un continuo approssimarsi a qualcosa che non sappiamo, Vivian Lamarque compie la sua approssimazione in libri di lievissima crudeltà come quest’ultimo, L’amore da vecchia. Con una grazia senza pietà, l’autrice trattiene il timbro cristallino dell’infanzia, arriva a mettere nero su bianco la rasserenante uguaglianza fra persona e persona. L’io poetico esposto da Lamarque desidera infatti essere un io collettivo, senza dichiarazioni gigantesche, scrivendo anzi di minime cose, trattando gli astri come cose comuni, avvicinando a sé la grandezza del cosmo per renderla abitabile, confidenziale, come sono elementari le cose reali. Ammesso che ne abbiano uno, compito dei poeti è soprattutto quello di segnalare il limite delle parole, costruire un erbario vivente di parole alle quali la terra del proprio pensiero e, soprattutto, della propria esperienza, dia nuova linfa. Parole che verdeggiano e rivivono dunque sulla pagina come verdeggiano e rivivono le piccole piante raccolte in luoghi strani come la tomba di Emily Dickinson. Certo, abbiamo paura del tempo che ci lascia morire, ma intanto possiamo far rivivere quello che mai è veramente morto, le parole comuni insieme all’erba, perché i poeti rubano senso e parole ai propri stessi sogni. Infine, Lamarque descrive la poesia come desiderio di mettere ordine alfabetico nel caos della vita, svelando così uno dei segreti emotivi della metrica, la necessità di sistemare in schemi sillabici il vivo e vitale disordine cosmico. Così, in una pirotecnica mischia di diminutivi, invenzioni, latinismi e rime interne, Lamarque mostra le cose come sono, con una nudità nella quale si specchiano i nostri segreti e le parole vivono, mosse dal vento leggero di un’invincibile, quasi mai disperata, vitalità.

Maria Grazia Calandrone

Le motivazioni del Comitato scientifico
La «feroce grazia» delle poesie di abbandono che Stefano Simoncelli ci offre nel suo ultimo libro, Sotto falso nome si trova tutto nel racconto di un tempo imminente nella memoria: i poeti conosciuti e amati, il padre, la madre, e soprattutto la compagna di una vita, morta ma presenza costante, là, che lo attende, che dà un senso all’esistenza anche nella sua assenza. Il poeta, assorbito in luoghi reali dove predomina la nebbia che viene dal mare (la natia Cesenatico, la sua Cesena) e sotto falso nome, come se appunto non avesse identità, con «una grazia per così dire interiore», riduce il mondo e ce lo ripropone con una speciale nuova evidenza, un nitore fortissimo. Il lutto inconsolabile, le ossessioni del passato e del presente, la memoria affievolita, la forza del ricordo, la stessa riduzione dell’io senza anagrafe a favore della narrazione dell’altro/altra non è un gioco delle parti, anzi, è il modo con cui Simoncelli mette in gioco l’amore, terreno e sacro, mondano e possibile, irrinunciabile. Motivazione del Comitato scientifico Nel suo libro di versi più coraggiosamente esposto all’idea della vita che finisce, Stefano Simoncelli inscena un’autentica, personalissima, svestizione dell’Io rimasto solo nella casa, più spesso nella stanza, in cui per anni è trascorso felice l’amore coniugale. In uno spazio circoscritto e familiare, che in calce ai testi è quasi solo Cesenatico o Cesena e dintorni, la voce sembra perdere le coordinate del tempo, persino la differenza tra le stagioni come se, per uno scherzo del destino, l’inverno potesse scambiarsi di posizione con la primavera e l’estate. Proprio come accade – per originale intuizione – al poeta sopravvissuto in domicili tappezzati dalle ombre degli affetti perduti. La soluzione per Simoncelli, che scrive questo libro quasi come se fosse il suo ultimo, è la resa, ma arrendersi pare solo un’ipotesi di fragilità: sparire e ridurre le tracce della propria presenza negli spazi della vita quotidiana significa farsi più piccoli di prima per tentare ciò che è impossibile: ridare ampiezza, colore, soglia a chi non c’è più. Spoliazione e sparizione di un soggetto lirico che, a differenza dei libri precedenti dell’autore, sceglie per rinnovata immaginazione e per volontà di «mimetizzarsi poco alla volta sul muro fino a diventare calce, polvere di stucco, crepa e scomparire».

Elisa Donzelli

Le motivazioni del Comitato scientifico
Il dato biografico sembra connaturato a quello geografico in questo poeta nato a Trieste nel 1975. Christian Sinicco, fondatore della Lega Italiana Poetry Slam, tra le molte attività per la poesia, monitora e segue il progetto L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti in dialetto e in altre lingue minoritarie (2014). Dopo anni di occupazioni instabili e lotta al precariato, oggi è sindacalista Cgil e lavora per una concessionaria autostradale in una zona di transito tra Nord Europa, Adriatico e Balcani. Al mare proteso verso Oriente, nell’onda lunga di una Mitteleuropa sommersa ma residua, è legata la sua raccolta più compiuta, Ballate di Lagosta, con affondi nel mare nostrum inteso non come casa, o habitat naturale, ma possibilità di movimento e voce. Moto che con Sinicco si impone per insurrezione primitiva, solo in seconda battuta per acquisizione, e sempre come canto. È a Lagosta (in croato Lastovo), isola della Dalmazia meridionale e luogo nuovo ed estraneo che, dopo un viaggio di svago, il poeta trova la sua Permanenza biologica, quasi pre-verbale. Non il racconto di sé e del proprio bios, piuttosto quello di un altro nucleo familiare, con la processione di Ferragosto e i rituali di persone e affetti acquisiti – Marija e Ambroz, Marijana, Jadro, Sara – pronti per alterità a farsi uomo e personaggio («l’isola è un uomo»). Individualità spiccate che si compenetrano nella collettività dei sensi e del rito: la ballata antica e popolare, il sonetto d’amore spinti alle soglie della canzone e del rap nell’intento multiplo di preservare la diversità di ogni singola voce del coro. Come nell’ultima sezione che è l’ipotesi meno scontata cui la raccolta pare aderire: il ritorno degli «spariti nelle onde», i migranti, dei quali – al pari di Marija, Ambroz, Jadro – il poeta recupera l’isola, il tuffarsi nell’oltre del suono che erode la sparizione. Motivazione del Comitato scientifico Le Ballate di Lagosta di Christian Sinicco rappresentano con grande efficacia l’impatto della storia, della realtà politica e del mondo contemporaneo con la poesia dell’interiorità. Sinicco è poeta di notevoli contrasti ed entra in un territorio storico e geografico formato dal sedimento delle esperienze feroci delle guerre balcaniche. Appaiono luoghi e personaggi dai margini precisi eppure lievi e inafferrabili come fantasmi. Poesie limate e ricercate ma abitate dalla passione dove, parafrasando uno dei suoi testi, le isole sono uomini, i cuori si fanno estasi e le lingue vibranti e variopinte echeggiano dopo la tempesta, i colori dell’erba bruciano, il paesaggio è freddo, il vento è privo di una direzione dunque ignoto e il ciclone dell’inverno tra le barche è quasi una speranza che nessuno ricorda o forse nessuno più conosce e dunque tace come i nomi di chi è stato inghiottito nel Mar Mediterraneo. Nell’universalità di questi versi, si evince un senso d’amore per la comunità umana e la sua storia, una suggestiva originalità dello sguardo che merita d’essere conosciuta.

Mario Desiati

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