Autore:
Alfonso Guida
Titolo: Diario di un autodidatta
Editore: Guanda
Città cementificate e desertiche, una generazione cresciuta nello smarrimento e nel terrore degli Anni di piombo, una giovinezza all’insegna del catechismo dell’inquietudine. Ma anche i miti di un’epoca, le letture salvifiche dei classici e l’amore omosessuale, vissuto al tempo stesso con vergogna e devozione. Si manifesta così la scrittura di Guida, feroce e acuminata. La voce lirica si muove nelle periferie, negli spazi feriti e interstiziali, in cui si agitano le passioni più brucianti e ci porta, attraverso l’umile e il quotidiano, nelle viscere segrete di un’esperienza umana sofferta e commossa. I versi dell’autore esprimono un autobiografismo coinvolgente e drammatico, prendendo le distanze dalla modernità.
Un io, la sua terra, le esperienze vissute sono i fili che tessono insieme la trama di una vita, che in questa poesia si espone e si mette a disposizione dell’ascolto dell’altro, attraverso una lingua di “pietra” fatta dell’aspro paesaggio della Lucania. Un’immersione nel sé («figura di troppi lati»), nella sua profonda solitudine, senza narcisismi e certezze, è il punto di confluenza ed esplosione tra vita e scrittura in Diario di un’autodidatta. In queste pagine echeggiano voci di memorie familiari, di amori vissuti, di traumi accumulati negli anni, e anche di fantasmi: «Parlavo strambi linguaggi di vento». In un confronto che si fa duro e nudo: «La strada non c’era, ma ho cominciato / presto a camminare. Non c’era niente. / Solo un vuoto orrido da cui pendevo. / Questo sentirmi attinto da un coltello». Versi che possono evocare la voce di una Amelia Rosselli (“Non ho un mondo pronto per me e così parto per un mondo meno pronto per me”), ma anche quella di altri che sono chiamati ad accompagnare i passi inquieti del poeta. Un andare avanti, dettato da un ritmo interiore, da un disseppellire e dissipare, che diviene una complessa operazione in cui la parola materica si fa sonda («Sondare è scarcerare») di una condizione esistenziale; insomma, uno scandagliare e perforare obliquamente, perché è «da una tregua spaventata», «da una riva» che Alfonso Guida scrive, in una soglia in cui tutti possiamo affacciarci e riconoscerci.
(Il Comitato Scientifico)









